mercoledì 4 febbraio 2009

Bossi Jr, Milano e il clima caraibico

La nomina del figlio del Senatùr alla Fiera: una storia alla Gabriel Garcia Marquez

La Lega, giurava anni fa Umberto Bossi, «assicura assoluta trasparenza contro ogni forma di clientelismo». Di più: «Non si barattano i valori-guida con una poltrona!». Di più ancora: «Dobbiamo essere in primo luogo inflessibili medici di noi stessi se vogliamo cambiare la società!». Bene, bravo, bis. Ma i figli, come dice Filomena Marturano, «so' piezz'e core». Così, quando si è trattato di dare vita all'«Osservatorio sulla trasparenza e l'efficacia del sistema fieristico lombardo », chi ha piazzato nel Comitato di presidenza? Suo figlio Renzo. Certo, l'approccio «mastelliano» alla raccomandazione («un peccato veniale», l'ha sempre definito Clemente) non è per il segretario della Lega una novità assoluta. Qualche anno fa, infatti, l'uomo che aveva fatto irruzione in politica tuonando contro il familismo, aveva già piazzato a Bruxelles il fratello Franco e il figlio Riccardo. Assunti come portaborse, il primo a carico di Matteo Salvini e il secondo di Francesco Speroni, evidentemente lieti di spendere «in famiglia» la prebenda di 12.750 euro al mese che ogni deputato riceve per l'attaché. Quali competenze avessero l'uno e l'altro non si sa e non si è mai avuto modo di approfondire: dopo la scoperta della doppia sistemazione parentale, ufficializzata dalla pubblicazione sul sito Internet www2.europarl.eu.int/assistants, le due nomine furono precipitosamente annullate. Meglio perdere un paio di stipendi che esporsi al rischio di mal di pancia dei leghisti di base allevati nel mito dei duri e puri.

Quanto alla competenza di Renzo Bossi nel nuovo incarico, il mistero è ancora più fitto. L'assessore regionale Davide Boni ha spiegato a Repubblica che la nomina del ragazzo è solo il primo passo: «Stanno scadendo i vertici e noi ci facciamo avanti perché la Fiera è troppo importante per Milano e l'intera Padania e perché la Lega esprime una classe politica di tutto rispetto». «E Renzo?» «Con lui la squadra non potrebbe essere più incisiva». L'affermazione, ovviamente del tutto estranea a ogni forma di leccapiedismo verso il Capo, è rassicurante. Fino a ieri, infatti, sulla statura del figlio del ministro delle Riforme esistevano due sentenze. Una emessa dai professori che l'hanno bocciato agli esami di maturità la prima, la seconda e poi ancora la terza volta che si è presentato, rendendo inutili tutti i ricorsi. L'altra emessa dal padre stesso il giorno in cui gli chiesero se Renzo fosse il suo delfino: «Delfino, delfino... Per ora è una trota». Battuta che fece nascere all'istante, su Internet, un «Renzo Trota fans club». Auguri, comunque. Al delfino salmonato e alla Fiera di Milano. Dopo tutto, può essere l'inizio di una brillante carriera. Del resto, negli staterelli caraibici, cose così capitano da un pezzo. Avete letto l'Autunno del patriarca di Gabriel García Márquez? Una delle scene indimenticabili è quella in cui la madre del dittatore, Bendicion Alvarado, nel vedere «suo figlio in uniforme d'etichetta con le medaglie d'oro e i guanti di raso» davanti al corpo diplomatico schierato al completo, non riesce a «reprimere l'impulso del suo orgoglio materno» e grida entusiasta: «Se io avessi saputo che mio figlio sarebbe diventato presidente della Repubblica lo avrei mandato a scuola!».

Gian Antonio Stella
04 febbraio 2009


www.corriere.it

martedì 3 febbraio 2009

Condannato a pagare le lenzuola

Disperato, senza orizzonti, solo con i suoi pensieri in quella cella. Il detenuto curdo decide di farla finita, riduce due federe a striscioline, si mette il cappio al collo. Ma ecco che le guardie del carcere triestino del Coroneo intuiscono la situazione, e all'ultimo momento lo salvano.

Storia a lieto fine? Sì, ma con multa. Lo Stato italiano rivuole i soldi delle federe. Sette euro. L'aspirante suicida, che nel frattempo è uscito di prigione e ha anche ottenuto asilo politico, rimborsa il dovuto e pensa che sia finita lì. E invece no. L'ingranaggio micidiale ormai si è messo in moto, come racconta Il Piccolo di Trieste. Sarà pure stato depresso e incline a lasciare questo mondo ma il curdo ha fatto a pezzi quelle due federe. Un magistrato lo rinvia a giudizio per danneggiamento aggravato. La motivazione è molto severa: "Con coscienza e volontà distruggeva un bene della Pubblica amministrazione".

In primo grado i giudici si convincono che non bastano i sette euro già risarciti, ci vuole una sanzione, deve rimanere agli atti che anche chi si suicida ha degli obblighi da rispettare, non può usare impunemente beni di proprietà altrui solo perché pressato dall'emergenza. Alla fine quantificano la multa: 30 euro.

Basta così? No, si va avanti. E' storia di pochi giorni fa. Il difensore del curdo ricorre in appello e chiede, in sintonia con il rappresentante della Procura generale, che il suo cliente venga assolto. In fondo, la situazione in cui si è prodotto il reato, cioè il danneggiamento delle federe, era stata drammatica, il detenuto si trovava in uno stato di evidente prostrazione, aveva deciso di porre termine ai suoi giorni, si era guardato intorno e quelle due federe gli erano sembrate l'unico modo di attuare l'insano proposito...

Tre magistrati si riuniscono in Camera di consiglio e discutono fra di loro del caso. Consulto delicato, forse anche tormentato. L'arringa dell'avvocato e la disponibilità dell'accusa non fanno breccia. La legge è la legge. Il curdo non può essere assolto. Arriva una nuova condanna. Però una crepa si è aperta. In appello la multa viene ritoccata: invece di trenta euro, ne bastano, a saldare il conto, venticinque. E' presto per conoscere le motivazioni della sentenza ma non appena arriverà non è affatto escluso che la faccenda delle federe approdi in Cassazione. E poi dicono che la giustizia non funziona.

Alessandra Longo - da Repubblica

domenica 1 febbraio 2009

Moschea

Stop alla moschea di Parma

La comunità islamica: discriminate le nostre preghiere

PARMA - Spogliata di tutto. Sono stati portati via i mobili e le sedie in legno, ma soprattutto il tappeto di 600 metri quadrati sui quali 5 volte al giorno pregano i quasi 300 musulmani di Parma. Se non fosse per qualche Corano appoggiato qua e là, ci vorrebbe un indovino per capire che quell'enorme capannone affogato in zona artigianale (1000 metri quadrati per 10 metri d'altezza) in realtà è una moschea. E pure nuova, con neanche un anno di vita. Desolatamente vuota, ora. Ma soprattutto priva di quel tappeto che, nel rito islamico, riveste un ruolo di particolare importanza, consentendo al fedele di non venire a contatto con le "impurità" del suolo.

Crociate leghiste? Petizioni? Macchè, per mandare al tappeto gli islamici di Parma è stato sufficiente aggrapparsi ad un cavillo normativo sulle norme antincendio. Da un sopralluogo dei vigili del fuoco è infatti risultato che la presenza del tappeto della preghiera (che contiene nylon), così come della mobilia e delle sedie in legno, poteva costituire un pericolo. Risultato: i vigili del fuoco hanno revocato il certificato di prevenzione incendi e l'assessorato all'urbanistica ha sospeso l'agibilità dei locali. Il problema è che di quel tipo di tappeti al nylon sono piene le moschee d'Italia. "A cominciare da quella di Roma, ma lì nessuno dice niente: e invece qui ci si attacca a tutto" ha denunciato alla "Gazzetta di Parma" il presidente degli islamici, Farid Mansouri, dando voce al risentimento dell'intera comunità: "Ci sentiamo discriminati. Noi non cerchiamo conflitti, ma abbiamo l'impressione che dietro l'applicazione di alcune norme si nasconda un odio nei nostri confronti". Senza considerare poi il danno: il tappeto incriminato è infatti costato 6 mila euro e ce ne vorranno "almeno 21 mila per acquistarne uno in regola".


da: www.corriere.it del 1 febbraio 2009